Narra la leggenda che il paese di Cinquefrondi sia sorto durante la splendida epoca della Magna Grecia, e in particolare grazie ai locresi che, nel quinto o nel quarto secolo avanti Cristo, molte volte lasciarono i loro territori sulla costa jonica, per venire a curiosare in quest’altro versante della costa calabrese.
I locresi non edificarono un centro urbano, perché il nucleo abitato vero e proprio del futuro paese quasi certamente ebbe origine qualche secolo dopo la nascita di Cristo. I locresi invece costruirono due templi pagani, uno, si dice, in onore delle Muse e l’altro della dea Proserpina. Non sappiamo invece con precisione se questi due templi furono costruiti nello stesso periodo o meno. Sappiamo invece, sempre secondo quanto ricorda la tradizione, che questi templi, di cui pure riferiscono in vario modo alcuni autori dei secoli scorsi, scorsero uno su un pendio nei pressi della fiumara (quello dedicato alle Muse) e l’altro nello stesso posto ove oggi sorge la Chiesa del Rosario. Il tempio delle Muse era probabilmente destinato a forme di culto discrete o rare, come testimonierebbe il fatto che venne costruito in una località che perfino oggi, che esistono le strade e le automobili, è difficile da raggiungere. Quale che fosse la ragione per la quale il luogo sacro fu costruito su quell’ inospitale pendio, certo è che il tempio rimase isolato perché proprio la natura del territorio circostante impediva, come impedisce ancora oggi, qualunque insediamento urbano degno di tal nome. Il luogo dove, secondo la tradizione, sorgeva il tempio, è ben visibile dalla superstrada che collega jonio e tirreno, appena fuori di Cinquefrondi in direzione nord. Ne sono testimonianza i ruderi di altre costruzioni che su quel luogo sacro sarebbero sorte in epoche successive e in qualche modo giunte fino a noi. A riprova del fatto che la leggenda dei greci ha un qualche fondamento reale c’è una testimonianza linguistica significativa: tutta l’area nei dintorni del luogo, dove sarebbe sorto il tempio delle muse, ancora oggi viene indicata con il termine dialettale “musucampu” , che vuol dire appunto zona delle Muse o campo delle Muse.
Il tempio dedicato a Proserpina, oltre che un sito sacro, rappresenta anche una sorta di punto d’incontro per le genti dell’epoca, tanto che attorno ad esso sorse un piccolo nucleo abitato. La tradizione vuole che il quartiere attorno all’attuale Chiesa del Rosario sia il più antico di Cinquefrondi.
Di questi due templi pagani si parla spesso nelle storie e nelle memorie cittadine. Si ricorda infatti che sulle rovine del tempio delle Muse, nel quarto o nel quinto secolo dopo Cristo sorse un convento per molto tempo retto dai monaci basiliani, fra i quali visse San Filippo D’Argirò. Il convento, sembra, fu abbandonato intorno alla metà del settimo secolo. Non era ancora tramontato il medioevo che probabilmente altri monaci andarono a stabilirvisi. Fra abbandoni e rinascite, la vita del convento cessò definitivamente nel febbraio del 1783, quando fu distrutto dal terremoto che colpi la Calabria e Cinquefrondi in particolare che fu rasa al suolo e subì 1343 morti. Il convento, ancora oggi erroneamente indicato come quello di San Filippo, da allora non è più stato ricostruito. Oggi ne rimangono alcuni ruderi parzialmente coperti da sterpaglia. Si sono conservati fino a noi alcuni muri perimetrali, una scalinata, una parte del pavimento e una sorta di grotta, forse luogo di preghiera.
Analoga sorte subì quasi certamente il tempio di Proserpina che, in epoca cristiana, non fu distrutto ma riadattato alle esigenze della nuova fede religiosa e trasformato in chiesa. Naturalmente non c’è alcuna fonte che ci dica quando ciò accadde. Come si vede, fra un avvertimento e l’altro, di cui la tradizione riferisce, corrono anche molti altri secoli di differenza, lasciano vuoti enormi nella memoria delle vicende cittadine, che probabilmente nessuno colmerà mai. Un’altra delle storie che si narrano con passione riguarda l’origine del nome “Cinquefrondi” , che si vuole dovuto ai cinque villaggi che in epoca imprecisa probabilmente medioevale, si riunirono, forse per difendersi da un comune nemico. I nomi di questi cinque villaggi, ognuno dei quali votato ad un santo, erano: San Demetrio, San Pantaleone, San Lorenzo, Santa Maria e Sant’Elia. Un fatto che immediatamente colpisce la curiosità di chi si interessa delle storie e memorie cinquefrondesi è che nella tradizione urbana culturale e linguistica dell’attuale paese non vi è la minima traccia di questi villaggi e solo per tre di essi si può parlare di riferimenti lontani e indiretti. Per esempio, di San Pantaleone, Sant’Elia e San Lorenzo non solo si ha una traccia circa le loro possibili ubicazioni reali, ma nella memoria onomastica del paese non compaiono mai i nomi di Demetrio, Elia o Lorenzo. Se anche fossero scomparsi eventuali ruderi o documenti comprovanti tempi e modi di esistenza dei villaggi, almeno un nome di persona sarebbe dovuto giungere fino a noi. Con il nome di Santa Maria oggi viene indicato, invece, un antico quartiere del paese, mentre unica discendenza di San Pantaleone è il nome di una contrada, lontana dal centro abitato, denominata in dialetto “Santu Pantu”. Di San Lorenzo esiste invece solo un altarino (o edicola) in Piazza Marconi. La tradizione riferisce di un Sant’ Elia che sarebbe vissuto in un monastero ubicato nelle campagne al confine fra l’attuale territorio di Cinquefrondi e quello di San Giorgio Morgeto. Ma questo Sant’Elia non c’entra con il villaggio che portava lo stesso santo. Un’altra tradizione vuole poi che uno dei cinque villaggi fosse dedicato a San Leonardo anziché a Santa Maria. Collegata alle leggende dei villaggi c’è quella muraglia, quasi certamente un castello, sorto forse in epoca medievale nei pressi dell’attuale Chiesa del Carmine, in quella zona del paese ancora oggi denominata “castello”. La storia del castello ha maggiori riscontri rispetto a quella dei villaggi, non solo perché diversi autori del passato ne riferiscono descrivendone anche l’aspetto in modo più o meno particolareggiato (d’altronde siamo anche più vicini nel tempo), ma anche perché c e una zona del paese , proprio all’esterno di quella che potrebbe essere la cinta muraria del castello, denominata “arretu a li mura” (letteralmente “dietro le mura” o “fuori le mura”). Di per sé questa non è una testimonianza definitiva e diretta dell’esistenza e dell’ubicazione del castello, ma certo indica con chiarezza che una parte del nucleo urbano risiedeva al di fuori del castello, appunto, o forse in un centro abitato vero e proprio, al quale un residuale muro di un vecchio castello faceva da margine. Un’altra delle storie che si tramandano sostiene poi che in quella parte dell’abitato vivessero gli ebrei, scacciati dal paese vero e proprio, e che la denominazione “arretu a li mura” marcasse il senso di esclusione e di emarginazione cui gli ebrei erano costretti dagli altri abitanti di Cinquefrondi. Di tutte queste storie, naturalmente, non ci sono tracce documentali. Con le storie e leggende ci fermiamo qui. Crediamo sufficiente aver dato un’idea delle lontane e controverse origini di questo paese e di quelle che, forse arbitrariamente, abbiamo ritenuto le più significative fra le vicende che la tradizione popolare e orale, talvolta anche testi scritti, hanno tramandato fino a noi, e chissà con quante variazioni. Di sicuro, la storia anche lontana di Cinquefrondi non deve essere stata troppo differente da quella dei nostri tempi. Nel senso che è una storia fatta di persone comuni, di famiglie, soprattutto di contadini, oggi anche di studenti, impiegati e commercianti. Ma è fondamentalmente una stona attraversata dalla semplicità e dalla povertà, dai sacrifici e qualche volta dal benessere, sempre dalla fatica. Non può essere taciuto che da qui sono passate generazioni di uomini e donne che, neI silenzio dell’anonimato e senza le pretese di mutare il corso dei tempi, hanno fatto la loro parte nella storia del mondo. Hanno lavorato ed amato, hanno arato la terra ed edificato. Hanno sofferto l’ira della natura e quella delle genti vicine. Hanno ricostruito il loro paese dopo ogni calamità, ne hanno conservato con cura le sue case, le sue chiese e le sue vie, consegnandolo un po’ alla volta fino a noi, ultimi arrivati, cui spetta ora il gravoso compito di conservarlo bene per coloro che verranno.
Dal volume
"Cinquefrondi - Storie e leggende"
di Francesco Gerace